giovedì 4 aprile 2013

maria teresa guaschino, pittrice

Quali sono le cose che più mi sorprendono? Le più comuni,
 per lo più soggetti inanimati. Che cosa mi sorprende in esse?
 Un quid che non conosco.
R. Musil,

L’artista non è mai morboso. L’artista può esprimere tutto.
O. Wilde

Pensare all’opera di  Maria Teresa Guaschino significa riflettere sul senso stesso dell’arte. Nel momento in cui ci si trova di fronte a questi lavori emerge un qualcosa di torbido, di sentito, di profondo. Guaschino ci pone di fronte a una realtà che non ammette repliche, che si mostra in tutta la sua crudezza. Puntuali strumenti linguistici che le servono per esprimere la tragica specificità di una cultura che descrive i punti più oscuri dell’umano. La sua linea, i colori reali e allusivi, sempre più violenti, l’utilizzo di immagini simbolo che trasmettono un’idea di disfacimento e che ben testimoniano il disagio dell’artista di fronte a una quotidianità che non le appartiene.
Il suo mondo ha radici profonde, se non fosse che Guaschino (nonostante la sua passione per l’Espressionismo) tende a rifiutare particolari paternità artistiche, si potrebbe affermare che si sia formata nella poetica del romanticismo. Infatti, la sua tensione al superamento della pittura trova una soddisfacente risposta in una sostanziale spersonalizzazione dell’opera. Con la sua interpretazione dell’arte realizza delle miniature dense di materia immagini liricamente astratte, quasi surreali, fatte di frammenti di storia personale che sembrano perseguitarla come fantasmi malvagi. Sono esperienze forti che sfumano nella fantasia e nel sogno: bestiari inventati, forme amebiche e placentari, stazionano su fondali a metà strada tra il marino e il lunare, immersi in un’atmosfera irreale, resa fumante da filamenti che richiamano la produzione di Yves Tanguy.
Se fosse stata individuata alcuni anni fa, Guaschino avrebbe meritato ben altro destino. Il sentimento che esprime la sua arte è fortemente interiorizzato e espresso con cliché al limite della riconoscibilità. Sono paesaggi mentali, grovigli di materia organica che si rivelano allo sguardo nella loro essenza più cruda. Tutto è espressione di un’accentuata ipersensibilità, rivolta a quegli eventi che sconvolgono la vita delle persone, eventi “estremi”  che sembrano non fare parte di questo mondo, reso sempre più sterile del tentativo di “abuso di potere” che l’uomo compie quotidianamente a danno di altri uomini.
Guaschino ha un percorso artistico tormentato, ma tutto sommato lineare. Insofferente a schemi o precetti, la sua pittura ha sempre tenacemente di esprimere una concezione del mondo. Come diceva Renato Birolli “l’artista non deve cercare linguaggi destinati a perire con la perdita del cifrario. Chi intende il senso delle cose giungerà a pensare o anche inventare direttamente le cose”. Sostituendo il temine “cose” con il termine “esseri umani”, si giunge a sfiorare il senso dell’attività di Guaschino, la quale dimostra un’attenzione particolare verso gli esseri umani che la sua arte esprime con i suoi mezzi.
La pittura di Guaschino va allora analizzata tenendone presente le diverse e eterogenee componenti che si amalgamano creativamente, in un discorso di autonomia che determina un risultato di grande valore estetico. Guaschino non ha potuto non prendere in considerazione lezioni sul grottesco e sul senso della morte derivanti da una tradizione che la trasforma in una rapsode antica. Su di esse si sono innestate rivisitazioni del surrealismo e dell’astrattismo materico.
La prima cosa che si nota osservando le tue opere è l’utilizzo di vari pigmenti con i quali riesci a ottenere degli effetti cromatici particolarmente vivi e dalla gamma molto estesa. Come ti è venuta l’esigenza di questa particolare scelta di materiali?
È l’ambiente della mia pratica di pittura. Non è il supporto a indicare le modalità di questa pratica. I materiali che uso sono quelli che conosco, alla base di un ragionamento che finisce per creare quello che voglio esprimere. Io non amo l’olio, mi dà fastidio l’odore di trementina. Forse per questo ho sviluppato delle scelte particolari. Ho adoperato la china, la tempera e una particolare pasta che è stata creata quando si usa come supporto il vetro. Mi piace la sua lucidità, e mi piace stenderla. È una bella sensazione.
E che cosa senti di esprimere?
Ancora una volta bisogna tornare alla mia pittura che procede su binari invisibili che si muovono attraverso equilibri interni. Mi sembra di esplorare un mondo. Non esiste un momento preparatorio. Seguo delle immagini che vivono dentro di me. Mi sembra di intuire qualcosa, come un ricordo che affiora, che tenta di scavalcare degli ostacoli e si mostra come qualcosa che riesco a percepire nelle sue linee essenziali e che poi si riempie di colore, di tempera, di inchiostro. Non posso dire di avere un modo: ricerco elementi che sono nelle stesso tempo esterni e interni e che porto alla percezione  fissando quell’attimo in cui mi sembrano più chiari e visibili. Qualcuno mi ha detto che io non so adoperare i colori, qualcuno che ho tradito il disegno per usare la materia. Io esprimo quello che sento
Ciò che componi è allora l’esplicitazione di un “paesaggio mentale”. Da quali avvenimenti è dominato? Che cosa resta di quegli avvenimenti?
Credo di essere stata segnata da avvenimenti che risalgono alla mia giovinezza. Quando c’era la guerra avevo poco più di dieci anni e vidi l’orrore dei corpi dilaniati, del sangue. Tutto il mio mondo era andato in frantumi, e questa situazione continua a vivere con me. Io non descrivo la natura, io guardo l’uomo, anche quando disegnavo le prostitute dei carrugi di Genova, donne che sentivo randagie, come i gatti e i cani. Non c’è un intento moralista nel mio lavoro. Io guardo e annoto senza giudicare.
Nella tua pittura si colgono diverse influenze culturali. Quali autori ti hanno influenzata maggiormente?
Credo che mi abbiano sempre affascinato le linee di Schiele e i colori di Nolde. C’è qualcosa dell’Espressionismo che si è radicato in me e che continua presentarsi con il mio lavoro. In ogni caso è difficile individuare una sola componente creativa. Dopo aver visto le figure di El Greco ho cominciato a assottigliare i corpi e a dare loro quella particolare caratteristica che identifica il mio modo di interpretare l’uomo.
Qual è la cosa cui Maria Teresa Guaschino non potrebbe rinunciare?
La mia vita è stata lunga, ho vissuto a Torino, a Casale e adesso in questa casa di Popolo (un sobborgo di Casale). Non mi interessa che cosa dicono gli altri, possono giudicarmi come vogliono. Ma io qui sono libera, non ho nessuno che mi imponga di fare o non fare qualcosa. Vivo con i miei gatti – e non ne ho mai dipinto uno! – in uno spazio che è tutto, ma veramente tutto: casa, magazzino, studio, insomma ciò che sono io.

lunedì 17 dicembre 2012

le situazioni lineari di gianni stefanutto

STRUTTURE IN LENTO MOVIMENTO


Io credo di percepire un mistero non familiare
Dinnanzi a tutto ciò che è considerato “del tutto naturale”.
È la sorpresa. Io rimango sempre sorpreso.
René Magritte

Ponendosi di fronte ai lavori di Gianni Stefanutto, comprendiamo subito che si sta parlando di un artista che ha una sua precisa caratterizzazione. L’opera di Stefanutto è infatti immediatamente percepibile perché si forma – e si fonda – su una precisa articolazione estetica. A tutta prima si può pensare che essa appartenga a una dimensione totalmente astratta, fortemente slegata dalla materialità. Ma ciò è inesatto, perché il lavoro di Stafanutto si sedimenta su percorsi che guardano a una dimensione assolutamente reale, nel senso che, egli agisce attraverso la sfavillante presentazione della propria poetica con moduli suggestivi e efficaci che designano un portentoso percorso nell’attualità, degno di particolare rilevanza.
È chiaro che il prodotto artistico di Stefanutto tende a oltrepassare la pura concretezza, esso appare quasi perfetto poiché il mezzo attraverso il quale è creato è il computer, strumento che ormai ogni uomo conosce. È un mezzo eccezionale, ma pur sempre legato all’utente che, in questo caso, lo adopera per creare un artefatto. Stefanutto agisce da artista/utente sulla dimensione, sullo spazio, insomma, in modo simile a un pittore che realizza i suoi quadri con elementi tradizionali, egli compone un soggetto secondo i crismi delle dimensioni che appartengono al mondo reale. A chi osserva è demandato il compito di decifrare un senso delle sue situazioni lineari. Esse, però,  non nascono con l’intento di diventare simboli o allegorie, esse colpiscono per il valore cromatico, per l’armonia delle sovrapposizioni, per una misterioso piacere che ci coglie, un piacere all’interno del quale, in fondo, individuiamo che anche questi lavori si collocano a pieno titolo in quel dibattito sull’arte che continua da secoli.
Due elementi rappresentano i cardini intorno ai quali ruota la produzione di Stefanutto: precisione e equilibrio. La precisione è un parte di una struttura acquisita con gli anni, determinata dalla peculiarità del lavoro dedicato alla grafica pubblicitaria, alla creazione di loghi che devono essere immediatamente riconoscibili e riproducibili. Dunque una base tecnica, finalizzata alla creazione di una committenza. Probabilmente in questa volontà di affermare un presupposto professionale si è fatta strada l’esigenza di raggiungere quel grado di equilibrio che gli ha permesso di cominciare a indagare i segreti della linea.
Dapprima era il fascino emanato dall’accartocciarsi della superficie bidimensionale che dava, attraverso il corretto uso delle ombre, la percezione della tridimensionalità. La sperimentazione avviene sullo schermo del computer che, con i suoi processori, era in grado di dare alla vista l’illusione tridimensionale. Quasi per gioco si è assistito a una costante evoluzione, un processo fatto di piccole variazione, adattamenti quasi biologici che hanno condotto all’apparizione di questi straordinari “attorcigliamenti”e sovrapposizioni di linee. Altre “situazioni lineari” nelle quali due differenti monocromie si accavallano e si sfiorano offrendo una precisa sensazione dinamica. Lo spazio di queste opere di Stefanutto è compresso e viene gradatamente occupato dall’affastellarsi razionale di movimenti lentissimi. L’immagine di queste opere è estroflessione pura che tende a fuoriuscire dalla sua superficie per approdare a uno spazio nuovo, a tutto tondo, per prendere forma come una scultura. Da questo nasce il costante pensiero di Stefanutto di realizzare opere nuove, simili a sculture, ma non sculture, che abbiano profondità e visibilità palpabile, senza però dover trascurare il gesto “pittorico” che è alla base del suo lavoro.

mercoledì 12 dicembre 2012

Mario Tassisto: tracce per una biografia

Mario Tassisto nacque a Casale il 12 dicembre 1919. Frequentò per alcuni anni l’Accademia Albertina di Torino, poi, a causa del Secondo conflitto mondiale, fu chiamato sotto le armi e dovette sospendere i suoi studi. Fu tra i pochi sopravvissuti all’eccidio di Cefalonia, e arrestato dalla Wermacht, fu internato in Germania. Nel 1946 ritornò in Italia.
È del marzo 1942 la prima segnalazione di una sua partecipazione a una esposizione pittorica. Tassistro (sic), con tre lavori, è uno dei partecipanti alla Mostra Provinciale artistica di Alessandria e viene definito uno dei più promettenti allievi del maestro Mazzoli. Un anno dopo, nel febbraio 1943, sempre nell’ambito del medesimo avvenimento, il giovane è di nuovo tra gli artisti che espongono, assieme a altri, tra i quali, Carrà, Morando e Cafassi.
Il 3 ottobre 1946 partecipa assieme a Annibale Biglione e Germino De Ambrogio a una mostra organizzata presso l’Accademia Filarmonica di Casale. Di Tassisto si dice che “partendo dagli impressionisti, giunge a una ricerca formale di derivazione italiana ed una netta personalità coloristica”. Nel gennaio 1947 espone presso la Galleria Cigala di Torino. Si tratta di Nature morte e Paesaggi del Monferrato. Tassisto ha un discreto successo, confermato altresì dalla vendita di quasi tutti i suoi lavori. Nell’aprile 1947 si iscrive al Premio Paglieri “Città di Alessandria”  e esibisce il suo lavoro alla mostra allestita presso la Pinacoteca Civica.
Nel giugno 1948 Tassisto espone alla Seconda Mostra nazionale d’Arte contemporanea che si svolge alla Pinacoteca Civica di Alessandria. L’edizione è curata da Emilio Zanzi e al pittore casalese è assegnato uno dei premi in palio. In ottobre è protagonista di una personale all’Accademia Filarmonica di Casale. Qui propone alcune opere a carattere religioso (Crocefissione e Via Crucis) segnalate per l’intensa cromia. Tra gli altri lavori vi sono due “Battaglie” e la “Chiesa degli Angioli”, un paesaggio definito grandioso. Nello stesso anno è ospitato dalla Galleria La Spiga, uno dei più prestigiosi spazi espositivi milanesi. Nel giugno 1949 partecipa a una collettiva sempre alla Filarmonica con due grandi tele: un paesaggio e un bozzetto per una Deposizione, poderosa e cromaticamente vivace.
Nel gennaio 1950 è inaugurata a Alessandria la Mostra d’arte Sacra. Fu una mostra fortemente influenzata dalle imposizioni censorie del Vescovo Gagnor, e una delle vittime della sua visione oscurantista fu proprio Mario Tassisto la cui opera fu esclusa. Il lavoro scartato, dal titolo “Sulla via del Calvario”, fu citato da Duilio Remondino come olio esteticamente valido e che avrebbe meritato ben diverso trattamento. In questi anni è segnalata la sua partecipazione a alcune mostre collettive: la Mostra del Paesaggio a Bellagio, il Premio di Pittura Città di Alessandria, la IV Mostra internazionale d’Arte contemporanea di Alessandria e la Biennale d’Arte Sacra a Novara.
Nel febbraio 1955 inaugura a Torino, al Circolo degli Artisti, una personale con una serie di acquerelli – paesaggi e Nature morte –. Relativamente a questa mostra, compare sulla Stampa dell’11 febbraio un articolo di Marziano Bernardi. Il critico esprime un sincero positivo giudizio sui 15 lavori in esposizione e sulla perizia di Tassisto nei confronti di questa tecnica, sottolineandone l’originalità e la passione con le quali conclude i soggetti rappresentati (Sera di Primavera; La Grande nube; Tramonto nel bosco; L’anguria; Mele e Carciofi).
Tra il 1957 e il 1962 Tassisto vive il momento più esaltante della sua carriera pittorica e realizza una serie di impressionanti lavori astratto/materici. In molti ritengono che questa sia la fase più significativa del pittore casalese. Nel dicembre 1960, espone alla Galleria  Pater di Milano, un gruppo di lavori informali. In precedenza, sempre con analoghe pitture, è in Germania a Aachen, Koln (per questa mostra del maggio 1959, fu pubblicata una breve riflessione di Peter Hohenr, successivamente tradotta e adoperata anche per la mostra di Milano) e Dusseldorf, quindi a Parigi e a Bruxelles. Nel 1962 è presente in una collettiva a Albissola alla Galleria Pescetto, insieme ai più gradi maestri dell’epoca. Come scrive Gabriele Serrafero, la mostra di Albissola rappresentò per Tassisto un momento di crisi che lo condusse a riflettere sugli esiti di questo suo percorso e, non senza problemi, a concluderla definitivamente per ritornare a una forma di figurativismo con tecniche e soggetti meno angoscianti. Fu dunque, quello informale, un momento di grande valore estetico, ma carico di sofferenza e di svuotamento emotivo poiché egli, totalmente avvolto dall’arte, in questa pittura, composta con estrema serietà e rigore, gettava tutto se stesso.
Nel dicembre 1963, Tassisto partecipa alla Collettiva di pittura contemporanea presso la Biblioteca civica di Casale. Nel 1964 espone in una collettiva a Asti dal titolo “Pittori del Falò”. Nel 1967, a ottobre, è con alcuni disegni al Circolo Lanza, disegni nei quali omaggia l’attività degli artisti che nei secoli precedenti agirono in Casale: è il primo nucleo della serie Casale città barocca. Nel febbraio 1968 Tassisto espone alla Galleria Il Cenacolo di Casale. Si tratta perlopiù di disegni che descrivono paesaggi cittadini, quelli che da questo momento in avanti saranno definitivamente identificati dalla serie “Casale città barocca”. Piero Ravasenga, in un articolo pubblicato sul Monferrato, pur rimarcando la bontà dell’attuale produzione, sembra ricordare con nostalgia la fase informale di Tassisto, definendola “fuga sull’Aventino pittorico”, una ribellione poetica nei confronti di un certo tipo di cultura dominante. A settembre è presente a Alessandria, alla Galleria San Giorgio, con  Maschere, Nature morte e Fiori. Sempre nel 1968 espone alla Galleria “Carlo Alberto” di Torino
Nel gennaio 1969 Tassisto tiene una personale di acquarelli alla Galleria d’Arte sant’Evasio a Casale. Nell’aprile 1969 è ospitato alla Galleria “la Giostra” di Asti. In un lungo articolo sulla Gazzetta di Asti, firmato da Silvia Taricco, viene evidenziato l’aspetto sofferto dell’arte di Tassisto, un aspetto che tende a evocare drammaticamente quelle consuetudini borghesi che non sfociano in nulla e che rimangono relegate nel chiuso di piccoli interni quotidiani. Il successo di questa mostra condurrà gli organizzatori a invitare una seconda volta, nell’aprile 1972, il pittore casalese. Tassisto espone alcuni grandi acquarelli che spiccano per le intense cromie. Poco dopo, a maggio, è segnalata una seconda mostra di acquarelli alla Galleria Sant’Evasio.
Nel dicembre 1974 è tra i partecipanti alla Rassegna di Grafica contemporanea presso la Galleria d’Arte “Acquario 3” di Casale. Nel novembre 1975 è il protagonista di una personale nella medesima galleria casalese. Espone delle Figure degli anni ’50, insieme a Nature morte e Interni degli anni ’70. In precedenza, a settembre, è ospite presso la Galleria d’arte moderna “Clio” di Alessandria.
Nel maggio 1976 Mario Tassisto tiene una personale alla Galleria Doria di Torino. Sono proposti  Nudi, Figure, Nature morte, Interni e alcuni disegni della serie Casale città barocca. Ancora una volta il giudizio è lusinghiero. Qualcuno parla di “rinascita”, di “seconda primavera”. Angelo Dragone definisce le sue tempere “dense e quasi palpabili e vanno a cercare soggetti introspettivi […] con manipolazione di getto, emotiva, addirittura inconscia di una realtà che pure è sempre presente”. Nell’ottobre 1978 si inaugura una sua personale alla Galleria Al Portale di Casale.
Mario Tassisto si spegne giovedì 25 gennaio 1979.
Nel tardo autunno del 1980 è organizzata la prima retrospettiva curata da Gabriele Serrafero. La rassegna è proposta nelle sale di Palazzo Magnocavallo e per l’occasione viene redatto un piccolo catalogo. Nel maggio 1986 è organizzata a Roma, alla Sala Capuzzi la mostra, dal titolo “Tassisto il percorso della solitudine”. La cura è affidata a Giovanna Barbero. Unanimemente la critica, in particolare Luigi Paolo Finizio, rileva l’importanza dell’attività artistica di Tassisto, individuando la peculiarità della sua pittura. A questa mostra, nello stesso anno,  segue un’esposizione di quadri presso la Galleria Costanzo di Casale. Nel marzo 1995, organizzata da Renzo Rolando, ha luogo la seconda e ultima retrospettiva di Mario Tassisto presso la Galleria Anna di Casale.

Mario Tassisto pittore casalese tra informale e espressionismo

TRACCE
Non c’è linea, non c’è modellazione, ci
sono solo contrasti. Quando il colore ha
raggiunto la sua più grande ricchezza, allora
la forma acquista la sua pienezza.
Paul Cézanne

Non lo sentite, non lo vedete? Odo io soltanto questa
melodia così meravigliosa e sommessa…
Richard Wagner, Tristano e Isolda


Mario Tassisto è uno dei più interessanti protagonisti nel panorama dell’attività pittorica dell’area casalese. Ma la sua figura non si inquadra facilmente: l’artista stesso non ha mai mancato di sottolineare il carattere individuale e solitario del suo percorso. Una posizione isolata, spesso fuori dalle tendenze alla moda, ma che non ha mancato di cimentarsi, elaborando prodotti di notevole valore, con l’estetica di uno dei più espliciti movimenti di rottura con la tradizione figurativa di tutti i tempi.
Un giorno qualcuno chiese a Pietro Morando, conosciutissimo pittore del territorio alessandrino, se, visto il valore artistico della sua arte, assai apprezzato da importanti critici, non gli convenisse lasciare Alessandria per trasferirsi in un’altra  città, nella quale il suo talento sarebbe maggiormente emerso. In questo modo, avrebbe potuto avere anche più ampi riconoscimenti di pubblico e il suo nome non sarebbe rimasto esclusivamente relegato al contesto provinciale nel quale agiva da anni. Si dice che, un po’ cinematograficamente, accese l’ennesima sigaretta e rispose che era meglio essere re a Alessandria che uno dei tanti “pittori apprezzati” in giro per il mondo. È chiaro che si tratta di un’esagerazione e che le ragioni di una scelta non possono essere limitate a quanto detto. Bisogna aggiungere che Morando espose in numerose gallerie in Italia e all’estero e la sua pittura non passò inosservata, ma questo aneddoto ci serve per capire lo spirito di alcuni artisti che hanno come punto fermo nel loro cammino la volontà di non subire troppi condizionamenti e, in un certo senso, tutelare prima di tutto la propria libertà espressiva.
Questa riflessione  potrebbe essere utilizzata per spiegare anche le scelte operate a suo tempo da Mario Tassisto. Pure lui fu presente con le sue opere in numerose città, molti ricordano ancora le sue mostre a Torino e Milano, insieme a quelle della fine degli anni Cinquanta in Germania, ma il peso di un possibile condizionamento determinato da critica e galleristi, condusse il pittore casalese a decidere di isolarsi in un ambito che, agli occhi di molti, poteva risultare assai ristretto, ma che gli avrebbe garantito quella pace senza la quale gli sarebbero probabilmente mancati alcuni, per lui fondamentali, motivi di ispirazione poetica.
Tassisto fu un pittore poliedrico, difficilmente riconducibile a un unico modello stilistico. Egli si ispirava a un intuito di non poco conto, era un acuto osservatore della realtà e traeva ispirazione da modelli precedenti rielaborandone gli elementi chiave. Ci sono dei particolari stilemici che attraversano tutta la sua arte, come, per esempio, l’intensità primordiale del colore che si raggruma in materia. Probabilmente, egli risulta più affascinante e completo nella sua produzione informale, nella quale offre esiti di stupefacente modernità, ma si afferma pure una precisa peculiarità della sua arte anche nell’ambito figurativo, sicuramente più tradizionale come impostazione, ma proposto con una pennellata espressionista che si addentra a indagare interessanti elementi simbolici.
LE MASCHERE e I NUDI
Sono opere caratterizzate da una ricerca severa e rigorosa, essenziali nel loro rapporto con lo spazio. Si comprende un’influenza della pittura metafisica, con una particolare attenzione all’insegnamento di Casorati. Il tutto è però interpretato in termini estremamente originali. In questi lavori lo spazio della scena, impostato con un taglio prospettico dall’alto verso il basso è spesso vuoto, con pochi elementi che scandiscono la tridimensionalità riprodotta. La rigidità delle figure illuminate da luci che accentuano il discorso delle ombre è determinata da una pittura sintetica, immersa in una tonalità brumosa, che impedisce di definire esattamente i liquidi contorni dei suoi soggetti. Le figure umane, in particolare, sono plasticamente compatte, con un carattere che si richiama a un certo classicismo arcaizzante. Le scene sono desolate, immerse in una solitudine malinconica, con i corpi isolati nella loro più concreta dimensione esistenziale. In questo caso si può parlare di pittura realistico/metafisica, con un richiamo allegorico sul tema della “vanitas”. A tal proposito, le maschere risultano estremamente comprensibili, con i loro occhi vuoti, i loro non sguardi enigmatici, pronti a esaltare un mondo poetico particolare, un luogo più mentale che fisico dove si formano le immagini della pittura di Tassisto. Da questa pittura emerge un equilibrio che si estende a tutte le componenti del suo linguaggio. Il dipinto è uno spazio compositivo che si basa su schemi razionalmente controllati, che difficilmente entrano a contatto con la realtà esterna e la quotidianità.
LE NATURE MORTE
Osservando i dipinti che possono essere ascritti a questo genere, si percepisce immediatamente l’ammirazione che Tassisto aveva nei confronti di Cézanne. Ciò si esplicita da una parte, attraverso la semplicità compositiva degli apparati, dall’altra, attraverso la loro complessità cromatica. Ciò che Tassisto rappresenta è assolutamente equilibrato, adattato alle esigenze delle singole forme. Il colore attraversa i quadri dando un senso di stabilità. I contrasti tra le sfumature si attenuano nel confondersi di cromie estremamente allargate, con lenti passaggi tra la luce e l’ombra. Ogni singolo pigmento si sviluppa in proprie tonalità, profonde e vellutate. Il colore passa da riflessi trasparenti a punti più carichi di pigmentazione, rimanendo sempre di una consistenza solida e materica. Tassisto colloca come imprescindibile la forma delle superfici, la conformazione delle cose, per dare loro una nuova struttura, indipendentemente dall’oggetto, mediante il colore, soprattutto grazie a trasparenze e opacità. Per delimitare gli oggetti Tassisto ha tratto delle linee che richiudono queste forme. Le sue nature morte sono modellate plasticamente, con sfondi piani, omogenei, contro cui la Natura morta si può stagliare calma, come in analoghi dipinti di altre epoche. L’osservatore entra in queste forme comprendendo l’armonia dei dipinti, percependo che l’atmosfera delle cose è data dal particolare uso delle gradazioni cromatiche, stese in modo leggero, liquido, ma senza trascurare nulla.
I PAESAGGI E GLI INTERNI
Pitture di interni quasi claustrofobiche e paesaggi che quasi stordiscono. Ecco in sintesi gli esiti del realismo descrittivo di Tassisto. Anche in questo caso appaiono evidenti delle citazioni relative al post-impressionismo francese, in particolare a Van Gogh e ancora a Cézanne. Anche in questo caso la tavolozza risulta densa, con colori che cercano di descrivere le forme. Le aperture prospettiche rimandano a visioni intimiste con piccoli inserimenti poetici. È l’affermazione della dimensione del quotidiano, in aperto contrasto con la trascendenza delle maschere e dei nudi. Sono immagini che vivono all’interno della propria esistenza, proposte in modo morbido con toni che si integrano esaltando un soggetto principale del dipinto: un viale alberato, un letto, una strada. Paesaggi armoniosi, esplicitazione di sostanziali morbidezze. Sono forse i dipinti che più di altri evidenziano l’uomo Tassisto, individuando gli aspetti salienti della sua esistenza.
L’INFORMALE
Un cospicuo gruppo di opere di Mario Tassisto sono da considerare a tutti gli effetti informali. Sono opere realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni del decennio successivo, quando questa fase della Storia dell’Arte stava per esaurire – o aveva già esaurito  – il suo carattere rivoluzionario. Per questo, non so fino a che punto, a proposito di questa parte fondamentale del lavoro di Tassisto, sia possibile affermare  quanto la sua pittura sia stata generata autonomamente o sia frutto di rielaborazione, sarebbe un discorso azzardato e ingiusto, soprattutto nei confronti dell’artista. Ciò che egli produce, è però bello e originale. Mario Tassisto si presenta dunque come un interprete della poetica informale, lascia spazio alla sua creatività condizionando il soggetto al gesto, con una lucidità particolare che viaggia su un doppio binario: da una parte attinge alla forza della materia, dall’altra c’è l’esigenza di inciderla, di darle un valore figurale che emerge oggettivamente durante l’osservazione dei quadri. Questa duplicità sembra essere la chiave per seguire l’artista nella sua produzione. Tassisto dà alla materia un valore universale, un valore che le permette di impregnare tutto di sé, che le permette di pervadere ogni individualità, senza badare se appartenga al mondo vivente oppure no. La materia non resta mai da sola, ma, contrariamente a altri artisti, non ha bisogno di trasformarsi in figure cui vengono veicolate le nozioni di uomo, donna, animale, paesaggio. È un universo primario che ribolle come una lava; su di esso ecco apparire questi conglomerati privi di riconoscibilità figurale, condotti con una grammatica che riporta all’esaltazione del movimento primordiale, che emerge attraverso un segno animato, un segno che nasconde la compresenza di materia e figura.
Tassisto non cerca una figurazione, la sua rappresentazione tende a dare alla natura un riconoscimento demiurgico. Ma l’opera deve anche risultare un’entità autosufficiente e in sé compiuta. Dall’interno di questi straordinari lavori si sviluppano tensioni estroflessive, come grumi tentacolari che si muovono seguendo un percorso centrifugo che intende spezzare la centralità del quadro come medium pittorico. È una liberazione di materia all’interno di una poetica essenzialmente spaziale.

martedì 4 dicembre 2012

ridisegnare napoleone a ovada

CELEBRARE IL MITO[1].
Se tutti fanno qualcosa nello stesso modo,
non bisogna per questo invitare gli altri a imi-
tarli. Ciò che ogni uomo ha in sé, può e deve
 venire espresso secondo la maniera a lui propria,
chi si guarda sempre paurosamente attorno, a
destra e a sinistra, per vedere come gli altri
agiscono, non possiede in sé tesori segreti.
Caspar David Friedrich, Scritti sull’arte.

Non è certamente facile confrontarsi oggi con la figura di Napoleone, con il rischio di banalizzare la vicenda pubblica e privata di un personaggio così complesso. Sono numerosi gli uomini illustri che, nel bene e nel male, sono stati presi in considerazione dalla storia dell’Arte, con letture iconografiche diversissime. Al pari degli altri “grandi”, anche Napoleone si propone con una sua specificità.
Se si dovesse cercare un perché del fatto che questa mostra sia stata incentrata sulla lettura del mito di Napoleone, forse, un po’ ironicamente, si può dire perché egli fu un difensore delle arti. Anzi, per giustificare questa affermazione è opportuno ricordare le parole che l’Imperatore pronunciò il 5 marzo 1808, rivolgendosi ai membri della classe di Belle Arti nell’Istituto di Francia: “Atene e Roma sono ancora celebri per i loro successi nelle arti; l’Italia, i cui popoli mi sono cari per tanti titoli si è distinta per prima fra le nazioni moderne. Io ho a cuore di vedere gli artisti francesi cancellare la gloria di Atene e dell’Italia. Sta a voi realizzare così belle speranze. Potete contare sulla mia protezione.”[2]
In effetti gli sta molto a cuore che il prestigio dell’Impero sia esaltato dea ogni manifestazione dello spirito, pertanto la formazione di un gruppo di intellettuali che siano capaci di glorificare il regime è una questione primaria. Pittori e scultori devono adattarsi alle “direttive” che vengono dall’alto. Viant Denon, il consigliere artistico di Bonaparte, è colui che designa chi ha il compito di commemorare il regime, alla pari di David che addirittura, dopo il passato rivoluzionario, riceverà per il suo impegno celebrativo la Lègion d’Honneur e sarà il più importante artista al servizio di Napoleone, del quale realizzò quei ritratti che ne hanno immortalato per sempre l’effige.
La ritrattistica di epoca napoleonica fu certamente encomiastica e quasi mai immune a quello spirito di adulazione che le è proprio. Tuttavia, conferendo ai modelli un’accentuata carica di eleganza, di grandiosità, di vigore, essa fissò immagini indimenticabili di una società compiaciuta di se stessa, un po’ presuntuosa e, nello stesso tempo, intinta di una sottile, incancellabile, ombra di volgarità. Lo stesso sovrano, nella rappresentazione che gli fu offerta in gioventù, fu coperto di un’aura capace di darli una credibile eroicizzazione. Il già citato David disse di lui: “che bella testa che ha! È pura, è grande, è bella come l’antico!... È questo un uomo al quale si sarebbero alzati altari nell’antichità… Bonaparte è il mio eroe!”[3]. Il pittore aveva di fronte l’immagine del vincitore della Campagna d’Italia, immortalato poco dopo il suo passaggio  nei territori dell’alessandrino. È importante questo ritratto incompiuto, perché fu l’unico per il quale il condottiero posò. Un testimone racconta che in quell’occasione Napoleone indossava una semplice rendigote blu col colletto alto che ne metteva in risalto il volto giallastro e magro, abbellito dalla disposizione artificiale della luce dello studio che ne accentuava le forme grandi e ben marcate. Se ne deduce che l’impostazione cui ci si riferiva era romantica, intrisa di esaltazione letteraria[4].
La posizione degli artisti promotori della propaganda napoleonica, poteva facilmente sconfinare nell’allegoria o nella divinizzazione vera e propria. Andrea Appiani aveva affrescato a Palazzo Reale di Milano a monocromo le principali battaglie napoleoniche, e, a pieni colori, un’apoteosi dell’Imperatore, presentato come un nuovo Cesare, su un trono antico sorretto da vittorie alate e circondato da geni con corone. Napoleone è a torso nudo, la testa cinta di alloro, in mano lo scettro e l’orbe[5]. In composizioni del genere, non più realistiche, occasionalmente, era data all’artista la facoltà di introdurre creature mitologiche al fine di realizzare il suo proposito. Sappiamo che Napoleone non amasse questo tipo di celebrazione, preferendo una più schietta raffigurazione di sé. Per lo stesso motivo non permise che fosse esposta al pubblico la statua di Canova in cui appare totalmente nudo, eroicizzato non come uomo della sua epoca ma come “imperator” dell’antichità[6].
Nei quadri di battaglia, spesso sfugge agli artisti dell’epoca un oggettivo equilibrio. La guerra è una ridda di orrori, è un momento estremamente cruento. Lasciando da parte le visioni idealizzate, qualcuno, durante la descrizione dello scontro armato,  si lascia trascinare da una sensibilità morbosa, estetizzante, ossessiva, concedendo spazio al particolare orrido o crudele. Gli effetti macabri, i contrasti raccapriccianti infiammano l’immaginazione di chi osserva. Certi dipinti, però, hanno il pregio di offrire spunti validi per capire la realtà delle decine di inutili battaglie, e evitano sempre di far comparire l’immagine del protagonista assoluto di quell’avvenimento, al quale sono invece preferite delle descrizione più esaltanti di taumaturgo, o di trionfatore, attraverso la raffigurazione di un Napoleone impavido, generoso e clemente che in seguito sarà largamente presente nella produzione pittorica.
L’arte contemporanea ha un po’ dimenticato la rappresentazione di Napoleone. Quando ciò è avvenuto, l’Imperatore, come molti altri famosi condottieri, è stato reinterpretato in chiave assai meno eroica, cercando di evidenziare i lati più veritieri e meno idealizzati della sua personalità. Questa tendenza è peraltro leggibile anche nelle opere che compongono questa rassegna. Gli artisti che sono stati coinvolti in questo progetto non hanno dovuto rispondere a alcun condizionamento:  a loro è stato chiesto soltanto di realizzare liberamente un’opera che avesse al centro questo straordinario personaggio e il suo mito, la cui apparizione nella Storia, ancora oggi, influenza il nostro modo di essere. Se Napoleone era in grado con la sua personalità di indirizzare le scelte estetiche dell’arte del suo tempo, a distanza di circa due secoli, sarebbe assurdo affermare che è ancora così. Ma il modello che venne imposto dal carisma imperiale in quel frangente, sembra non essere dimenticato, e è ancora individuabile nelle scelte di alcuni artisti in mostra. Si nota il ricorso a un’iconografia consolidata, che rilegge gli archetipi realizzati da David o Ingres, e che si rifà a posizioni standardizzate nella rappresentazione del condottiero. Si cerca talvolta nella caricatura una risposta ironica al tema. È dunque così difficile schiodarsi da una tradizione stabile che non ha fatto altro che ribadire l’idea del Napoleone eroe a tutti i costi? La particolarità di questa rassegna, al di là delle interpretazioni che possono essere date ai singoli contributi artistici, ci offre l’occasione per comprendere sicuramente almeno una cosa, ossia, come il messaggio dei classici continui a influenzare il nostro modo di lavorare. Ovviamente non si tratta di un limite dell’arte contemporanea, anzi, tutto ciò dovrebbe essere percepito come qualcosa di estremamente positivo. Si cita e si rielabora, seguendo un percorso estremamente personale di indubbio valore. Ma tutta questa fedeltà ai modelli degli artisti napoleonici, forse,  avviene solo perché ci si trova di fronte a Napoleone. Per questo, dunque,  Napoleone è un mito, per questo, nonostante le migliaia di morti, i feriti, i mutilati, la ferocia di un tempo, la violenza, l’angoscia, egli ci appare eternato nel nostro immaginario. Mito, infatti, è qualcosa di esemplare, di idealizzato, qualcosa che travalica i confini della realtà penetrando a fondo nel fantastico. Napoleone ha polarizzato le aspirazioni di un’epoca, diventandone simbolo, e questa sua azione, nonostante tutto, ci condiziona ancora.



[1] Si tratta del medesimo scritto del catalogo pubblicato in occasione della mostra IL DI-SEGNO DI NAPOLEONE, tenuta a Serravalle Scrivia nelle Sale Espositive Comunali d’arte moderna e contemporanea, dal 15 giugno all’8 luglio 2012.
[2] Maria Luisa Rizzati, Le Belle Arti, in: Napoleone, Mondadori, Milano, 1971.
[3] Marco Fabio Apolloni, Napoleone e le arti, Giunti, Firenze, 2004.
[4] Marcel Brion, La Pittura romantica, Istituto italiano d’arti grafiche, Bergamo, 1968.
[5] Alessandra Zanchi, Andrea Appiani,Clueb, Bologna, 1995.
[6] Mario Praz, Gusto Neoclassico, Rizzoli, Milano, 1990.